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Silvia Ferrara - - Il Ponte La rivista degli

La grande Madre Mediterranea, tra culto, storia e luoghi comuni

di Silvia Ferrara


Fra gli eterni stereotipi che segnano il carattere nazionale italiano, è il mammismo ad avere una posizione di spicco anche all’estero. Archetipo di donna capace di amore incondizionato, accudente e devoto, finanche al servizio totale dei figli, la mamma italiana è accusata di indurre dipendenza emotiva nella relazione filiale, soprattutto nel maschio, anche trattenendolo tra le pareti domestiche troppo a lungo e promuovendo in lui un mancato senso di responsabilità ed autonomia. Ci sarebbe poi un legame sottile con l’immagine della “mamma italiana”, risalente ai moti risorgimentali, in cui le madri degli esuli politici, attraverso un rapporto privilegiato con i figli alimentavano in loro incitamento, motivazione, sostegno, rispetto ai dubbi e ai cedimenti, contribuendo al raggiungimento di un esito positivo.

Del fenomeno del mammismo in Italia parliamo con Maria Rita Parsi, psicoterapeuta, scrittrice e docente universitaria.


Fino agli anni 60, la condizione è che le donne lavorano in casa, si chiamano casalinghe, e chi si prende cura sin dall’origine della vita dei bambini sono le madri, a maggior ragione in Italia dove ancora oggi il lavoro femminile è carente. Un mondo molto al femminile all’interno della famiglia, fatto di mamme, nonne, zie, sorelle maggiori, ma anche nella scuola, dove la stragrande maggioranza degli insegnanti,

soprattutto alle elementari e nella scuola dell’infanzia sono donne. Si spiega così che le prime impronte diciamo sentimentali, affettive, culturali siano date da una visione prevalentemente femminile del mondo.

Così per i maschi fin da subito si crea un legame con le donne con cui si sviluppa un’affettuosissima diade, tante volte addirittura una simbiosi, come direbbe il buon Bollea (padre della moderna psichiatria infantile) “nonostante uno sia nato maschio, dipende dal contenimento femminile, dall’approvazione femminile, dal consenso femminile”. Ecco, quindi, che quelli che chiamiamo mammoni sono quelli che a questo potere femminile danno un tale valore, o ne sono talmente imprigionati che poi rimangono nell’incapacità di evolversi, di andare verso il confronto con un padre che è spesso fuori per lavoro, che se non si trattiene a giocare con i figli, e se fisicamente non c’è, praticamente è come se li avesse lasciati.

Nella famiglia tradizionale, molto spesso è proprio il padre assente a far sì che il figlio sia un partner sostitutivo, così come nelle famiglie separate, dove di solito c’è un figlio che di fronte a un’assenza paterna o di fronte a una separazione in cui la donna si sente abbandonata, va a fare il partner sostitutivo. Spesso guardando le storie personali dei cosiddetti “mammoni” che rimangono a casa con la madre, si nota che hanno dietro delle famiglie in cui la figura paterna è stata poco presente, o aveva altri interessi. E così le madri erano da consolare, da intrattenere.

Un legame che può diventare patologico? Si, nel senso che io madre ti iper proteggo dal mio fastidio, dal fatto che sono obbligata dal mio ruolo di madre, il che può far scattare un meccanismo in cui io posso avere un atteggiamento del tipo “tu sei il braccio armato della mia vendetta, cioè tu stai qua e io ti trattengo perché in questo modo mi risarcisci del tempo che ti ho dedicato”.

C’è poi un altro aspetto, quello del servizio, in cui la madre diventa iper accudente e quindi iperprotettiva, nascondendo qualcosa a livello profondo, disfunzionale. L’iper-accudimento produce dipendenza anche nel figlio, perché “se mi dai in continuazione, mi abituo alla fine che queste cose che dovrei fare in autonomia le faccio perché super accudito”; quindi, alla fine perdo energie rispetto all’autonomia.

Il tema fondamentale degli esseri umani per non essere né mammoni né ragazze iper-attaccate alla madre, è proprio la promozione che una madre e un padre possono dare all’autonomia dei figli. Se quell’autonomia non viene promossa, alla fine c’è chi scappa o si allontana, chi trova soluzioni per andarsene il più presto possibile, sposandosi o andando a studiare all’estero, e chi invece accetta tutto questo; ma è un prezzo altissimo dove continua il controllo, continua il ”ti devo dare il rendiconto del mio operato”. Si innescano così una serie di motivazioni per le quali preferisco non reggermi sulle mie gambe ma invece continuare a sostenermi al bastone di questa tutela genitoriale, molto spesso appunto quella della madre, in grado di assicurarmi tutti questi vantaggi, che poi in realtà sono svantaggi perché comunque non mi costruisco a tempo debito delle mie autonomie.

Bisogna inoltre considerare la vita prenatale in cui, mentre la femmina ha esperienza del corpo della madre e possibilità di ridare la vita in prospettiva, per il maschio il discorso è tornare al corpo della madre per essere “in simbiosi con”… Quella al femminile diventa pertanto una dipendenza diversa, in cui si riproduce una condizione primaria che è stata prioritaria e determinante nell’esperienza di una bambina, mentre al maschile tutto si rapporta a quelle cure, a quell’attenzione e a quelle forme, che riportano al corpo della madre. In fin dei conti è la madre che dà la vita, fatto decisivo anche a livello di scambio neurochimico madre feto, è lei che affronta il parto e che allatta, che spesso ha la depressione post partum, c’è quindi una condizione che non può prescindere dalla natura…

Ecco che alcuni uomini non crescono, che rimangono accanto alla propria madre perché la madre viene prima di tutto, restano legati a soddisfarla per essere soddisfatti, a risarcirla per essere risarciti loro stessi: è tutto un gioco. Le donne dovrebbero imparare a comprendere meglio il potere femminile, a meglio amministrarlo e metterlo a frutto nel rispetto di quello che ciò rappresenta per gli uomini. Perché poi se il risarcimento è infinito devi essere sempre riconoscente per essere stato messo al mondo, e perché comunque quella è la mamma.

Il mammismo, molto italiano e ancora diffuso, quanto è alimentato da problemi economici e sociali del Paese? Ancora troppo, in un paese dove la media statistica delle donne guadagna molto meno degli uomini e ha minori opportunità. Inoltre, le donne, anche giovanissime, cercano un’autonomia, un’indipendenza economica che prima non veniva ricercata minimamente e che oggi invece è fondamentale, quasi più per la donna che per l’uomo, creando comunque un divario.

Per poter creare una famiglia ci deve essere una madre che abbia quello che io definisco il complesso di Atlanta, e non di Atlante, perché è il mito di Atlanta che porta tutto sulle spalle: la famiglia, i figli, un lavoro dentro e spesso anche fuori casa, e la gestione del rapporto stesso con il proprio partner. Tutto questo richiede tempo, disponibilità e spirito di sacrificio. Ecco che quelle donne che rimangono in casa, evidentemente un risarcimento a livello inconscio lo chiedono, qualche cosa che le ripaghi delle rinunce e dell’abnegazione. Tutto ciò si evidenzia inevitabilmente nei divorzi e nelle separazioni. Se c’è una separazione, una donna che rimane con un figlio, per andare avanti sicuramente deve trovare altre possibilità economiche oltre al mantenimento; molte donne scelgono proprio per questo di non separarsi, anche se in realtà sono separate in casa e anche in quei casi può succedere che i figli diventino partner sostitutivi. Un meccanismo che rischia di ripetersi all’infinito e da cui il maschio deve prendere le distanze se si vuole emancipare dalla madre.

Che cosa andrebbe fatto per la progettualità delle coppie e dei nuovi genitori? Si dice provocatoriamente che prevenire è meglio che curare, e l’Italia deve imparare a progettare di più e a lungo termine perché non preveniamo abbastanza per le famiglie, così come non preveniamo a livello scolastico, con programmi che sono ormai inadeguati ed antiquati. Non come in Danimarca, uno dei paesi più avanzati in questo senso. E poi sicuramente non ci prendiamo cura abbastanza della salute mentale, non diamo strumenti e non facciamo investimenti.

La famiglia così come si è intesa per milioni di anni, detto fra noi, non esiste più, nemmeno in Italia. Quindi o si cambia o si cambia. Avere strumenti, formarsi, lavorare sulla prevenzione, se c’è una cosa che misura a che punto sta una coppia è la nascita di un figlio, perché è una cosa che dissocia e mette in sospensione; ma come si vive questo cambiamento? È un impatto talmente forte e sono talmente impreparati i genitori che poi alla fine si minano i rapporti, la sessualità, i ritmi, i tempi, l’alimentazione; un tema conosciuto da tutti ma di cui nessuno parla!

Farei poi un invito anche ai papà dei mammoni, che si facessero un esame di coscienza, perché detto tra noi dove ci sono figli mammoni non ci sono solo madri invadenti, pervasive.

La responsabilità del mammismo va ben distribuita tra padri e madri, perché di solito alligna dove i padri sono più assenti o dipendenti loro stessi dalle loro madri, o dalla moglie trasformata in madre.

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Maria Rita Parsi attuale componente dell’Osservatorio nazionale per l’infanzia e l’adolescenza, già membro del Comitato ONU sui diritti del fanciullo, ha al suo attivo la pubblicazione di oltre 100 libri di tipo scientifico, letterario e divulgativo. Nel 1992 ha dato vita all’Associazione Onlus “Movimento per, con e dei bambini”, divenuta dal 2005 Fondazione Movimento Bambino Onlus che opera per la diffusione della Cultura dell’Infanzia e dell’Adolescenza e si batte contro gli abusi e i maltrattamenti dei bambini e dei ragazzi, e per la loro tutela giuridica e sociale.



Vai al Link per leggere l'articolo pubblicato sul numero di giugno Il Ponte


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